351 599 6499 | Eugénie Dott.ssa Alderisio studio@alderisio.it

La Signora Patrizia ha 48 anni, è di bell’aspetto ma appare trascurata. Esordisce dicendo: “io non ho bisogno dello psicologo che per me non servono a niente e sono tutti inutili, sono qui perché mi manda la psichiatra”.
Dopo un primo momento di stasi, nel quale mi accorgo di subire e non riuscire a ad avere nessuna reazione, ascolto questo mio senso di immobilità per comprenderne il significato.
Le sue parole, mi arrivano come fossero una valanga volta a sminuire e ridicolizzare e le sento come se le stesse utilizzando per irridermi e denigrarmi. Avverto un senso di impotenza ed un bisogno di difendermi da tutto questo.
Attraverso questa sua esternazione, questo iniziale attacco (forse all’autorità, forse al materno) la paziente riversa su di me quella che è la sua più intima angoscia, è il suo sentirsi inutile e priva di valore che lei sente. Mette in scena con me quello che è il suo trauma alla luce di un suo vissuto. Riemerge la rabbia ed il dolore, quello di una bambina non considerata, irrisa e vana. Il suo atteggiamento è la rappresentazione di un bisogno, quello di difendersi che esprime attraverso l’attacco: “mi difendo prima che tu possa ferirmi” a protezione di un Sé fragile e troppo bistrattato nel tempo.
Il suo volermi dire quanto non mi riconosca nel ruolo di supporto ed aiuto, mi invita a riflettere su come possa aver vissuto il rapporto primario. Essendo io donna, probabile rappresentante di un suo materno sentito come ostile ed offensivo, divento il contenitore nel quale riversare sentimenti avversi e astiosi avvisandomi soprattutto, di come io non possa ferirla.
Sembra voglia dirmi: “se non ti riconosco come madre non sento il dolore che mi provochi cosi posso sopravvivere”. Percepisco un grande bisogno di esprimere una rabbia dolorosa nel tentativo di farla sentire all’altro, una grande necessità di essere ascoltata, sentita nella sua profonda pena.
Emerge il suo difficile rapporto con la madre che viene descritta come incapace di profondere gesti amorevoli e totalmente anaffettiva, molto controllante e giudicante nei confronti di una bambina ferma e immobile incapace di agire per le continue critiche e pesanti osservazioni.
Noto un cambiamento repentino di umore. La paziente passa da una situazione di attacco e rifiuto, ad una benevola accettazione del parlare di sé, con tanto di sorriso. Non avverto più rabbia ma soltanto il dolore con il quale la paziente racconta le sue vicende sentimentali. Una sequenza di uomini fedifraghi pronti a tradirla sotto ogni aspetto, sia sentimentale che professionale, lo stesso tradimento materno che si ripete. Relazioni che durano anni ma dalle quali, pur volendo e comprendendo bene il disagio che le arrecano, non riesce mai ad uscire perché passiva nella relazione. Durante il racconto avverto il dolore, questo malessere che nasce dall’incapacità di agire contro il volere dell’altro, la immobilità, la stessa che ho sentito quanto la paziente ha esordito dicendomi di non valere nulla. Questo cambio di umore mi racconta di come la paziente aneli ad essere ascoltata e capita. Mi fa riflettere sui suoi rapporti primari e di come questi possano esser stati ambivalenti lasciandola in balia ora della rabbia, ora della ricerca di accoglimento, quello stesso accoglimento che lei ricerca nella relazione con me.